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L’ESPERIENZA DEL DOLORE

Anselm Kiefer, "La moglie di Lot", 1989. © Cleveland Museum of Art/Leonard C. Hanna, Jr. Fund/Bridgeman Images.
Crediti: 5 ECM
Costo: gratuito
Durata corso: 5h
Docente:

Marco Belpoliti Saggista, scrittore, docente universitario, direttore della rivista e casa editrice www.doppiozero.com

David Bidussa Storico sociale delle idee, consulente editoriale di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, collaboratore de “Il domenicale – il Sole 24 ore”


Ugo Morelli
Professore di Scienze cognitive applicate alla vivibilità, al paesaggio e all’ambiente presso l’Università degli Studi di Napoli, Federico II


Mario Porro
Studioso di epistemologia francese, docente di Filosofia e Storia presso il Liceo “Fermi” di Cantù


Anna Stefi 
Psicologa, docente di scuole superiori, vicedirettrice della rivista www.doppiozero.com e redattrice della collana Riga

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

L’ESPERIENZA DEL DOLORE

Razionale scientifico

In occasione della Giornata internazionale della Memoria, celebrata ogni anno il 27 gennaio,
Synapsis in collaborazione con la rivista culturale “doppiozero” pubblica la serie di webinar dal
titolo L’esperienza del dolore.

Cinque docenti, cinque interventi sull’“esperienza del dolore”: un’espressione del filosofo Salvatore
Natoli che stigmatizza le forme del patire fisiche e psicologiche. Ne è metafora il vulnus della
Shoah, che ha accomunato e persino creato legami tra letterati, intellettuali, personalità del
Novecento.

Le lezioni sono tenute da studiosi che si avvalgono di fonti letterarie, filosofiche, artistiche, per
suggerire, anche a chi è impegnato nelle professioni sanitarie, una riflessione di stampo umanistico
sul tema del dolore fisico e psicologico. Le testimonianze di deportati divenuti celebri, scomparsi o
sopravvissuti ai lager, si arricchiscono di una prospettiva inedita se analizzate in modo non
diagnostico, stimolando una comprensione antropologica e psicoanalitica.

Marco Belpoliti indaga la cognizione del dolore in Primo Levi (1919-1987) partendo dal suo libro
di esordio, Se questo è un uomo (1946 e 1958). Dove la parola “dolore” compare per la prima volta
nel racconto di quanto avviene nel campo di detenzione di Fossoli, quando una famiglia di Tripoli,
presaga del viaggio verso Auschwitz che attende i prigionieri, inscena un simbolico rito funebre. È
il dolore antico di un popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo
rinnovato, osservato con gli occhi dell’ebreo laico, dalla formazione cristiana. Nel corso dei suoi
anni da scrittore Levi elaborerà una propria “teoria del dolore”, legato a stati fisici e psicologici,
senza una distinzione netta tra le due condizioni, benché la seconda fosse per lui ben peggiore della
prima. La laurea in chimica dopo gli studi liceali umanistici gli lascerà un’attenzione spiccata per il
dato biologico, una visione da antropologo. Non scientifica, ma focalizzata sulla condizione umana,
racchiusa nel titolo del suo libro più noto.

Come racconta David Bidussa, è proprio Primo Levi a introdurre in Italia Jean Améry (1912-
1978), in un articolo del 1978 su “La Stampa”, due mesi prima del suicidio dello scrittore austriaco,
per poi dedicargli un capitolo (intitolato appunto “Risentimento”) nel suo libro I sommersi e i
salvati. Il tema è come rapportarsi all’esperienza traumatica che entrambi hanno vissuto nei campi
di sterminio. Améry da ebreo per parte di padre, non praticante, e da partigiano della Resistenza
belga, torturato dalle SS, da cui nascerà il libro Un intellettuale a Auschwitz. Per entrambi gli
scrittori la riflessione è sul dolore sfociato in risentimento e la domanda è come la memoria del
dolore e l’esperienza di ricordarlo ne sia condizionata. Una questione pubblica, affinché il
risentimento non sia causa di oblio della memoria. L’atto suicidario di Levi a una decina d’anni di
distanza da Améry sigla i loro destini e la memoria della comune esperienza, di dolore e
risentimento.

È Anna Stefi a tracciare un ritratto biografico e psicologico dell’ebrea olandese Etty Hillesum
(1914-1943), luminosa figura femminile che ha attraversato con grazia e umanità l’esperienza
dell’Olocausto. Breve e intensa la vita della giovane donna dagli ideali alti e dalla vocazione
radicale. «Vorrei essere il cuore pulsante di un intero campo di concentramento» dice di sé nei Diari
(11 quaderni di cui uno smarrito) e nelle lettere scritti ad Auschwitz, al quale non si sottrasse per la
volontà di condividere la sorte del suo popolo. Divulgati tardivamente, i suoi scritti restituiscono
un’immagine dell’autrice che a qualcuno è parsa “imperdonabile”, persino scandalosa per le sue
irricevibili parole d’amore, uscite dalla miseria e dal degrado del campo: «Pensavamo che mai più
avremmo potuto ridere ed essere lievi, ma se poi ci si reca tra la gente ci si rende conto che c’è vita e
che questa vita si ripresenta nelle sue mille sfumature».

Altra figura femminile tra le più rappresentative dell’esperienza della deportazione è Germaine
Tillion (1907-2008), la cui vicenda biografica e professionale è ripercorsa da Mario Porro.
Etnologa francese arrestata durante la Resistenza e internata a Ravensbrück, nei suoi scritti
clandestini porta lo sguardo e l’esperienza della scienziata, per la quale osservare e analizzare
rispondono alla volontà di capire l’incomprensibile. E se nulla è più spaventoso dell’assurdo,
comprendere è già una prima forma di resistenza morale, dacché la ragione è per la studiosa la forza
maggiore di cui l’umanità dispone. La sua testimonianza è raccolta nel volume Alla ricerca del vero
e del giusto, nella cui prefazione Cvetan Todorov accomuna l’autrice a Etty Hillesum. E proprio
come Primo Levi, nella sua vita lunga oltre cent’anni, Germaine Tillion non si sarebbe mai
spogliata di quell’habitus di scienziata che aveva portato anche nel campo.

Accomuna Bruno Bettelheim (1903-1990) ad altri protagonisti del corso la biografia di ebreo del
Novecento, l’esperienza del dolore nel lager nazista, così come la scelta suicidaria. Ugo Morelli ne
ripercorre la vicenda esistenziale e professionale, inestricabilmente connessa al dolore patito e alle
stigmate di sopravvissuto dell’Olocausto. Il trauma, inteso come componente distruttiva e
regressiva ma dalle prospettive ristrutturanti e persino creative, è assunto come riferimento. Nel
caso dell’austriaco Bettelheim, liberato dal campo di sterminio come raramente accadde ed
emigrato negli Stati Uniti, l’orizzonte fu una carriera dedicata ai traumi e alla psicologia dei disturbi
della crescita, anche dello spettro autistico, formulando una terapia infantile e adolescenziale che
potesse alleviarne le sofferenze, le fiabe quali rappresentazioni dei miti psicoanalitici. Riletto oggi
dal relatore alla luce delle recenti scoperte delle neuroscienze, il percorso di Bettelheim si apre a
nuove interpretazioni.