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LA MOLTEPLICITÀ DEI MODELLI IN PSICOTERAPIA

Vasilij Kandinskij, "Cerchi concentrici", 1913. Artothek/Bridgeman Images.
Crediti: 1 ECM
Costo: gratuito
Durata corso: 1h
Docente:

Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

LA MOLTEPLICITÀ DEI MODELLI IN PSICOTERAPIA

Razionale scientifico

Diversamente da quanto accade in medicina, in psicoterapia esistono moltissimi approcci diversi, a volte addirittura opposti, per affrontare un medesimo disturbo psicologico. Un problema questo che può disorientare l’epistemologo, e che ha fatto dire a molti che la psicoterapia sia ancora in uno stadio prescientifico.

Come superare tale impasse? Una soluzione potrebbe essere quella di applicare in psicoterapia – come in medicina – il metodo sperimentale per verificare la sua efficacia, mettendo cioè a confronto e valutando empiricamente le diverse tecniche che le diverse scuole psicoterapiche propongono. Tale procedura però si scontra con la grande difficoltà di fare ricerca empirica in psicoterapia, non potendo applicare appieno in questo campo la metodologia sperimentale basata su quello che viene chiamato il gold standard della ricerca scientifica, cioè gli “studi randomizzati controllati” (randomized controlled trials [RCT]). Questa metodologia di ricerca, che ad esempio è utilizzata nello studio dell’efficacia dei farmaci, come è noto si basa sul doppio cieco (double blind) e sull’utilizzo del placebo, che non sono del tutto praticabili nella ricerca sulla efficacia della psicoterapia per ovvi motivi: il doppio cieco non è attuabile perché né il terapeuta né il paziente possono essere tenuti all’oscuro di quello che fanno, e non è facile costruire una situazione di effettivo placebo in psicoterapia essendo il placebo esso stesso un tipo di relazione con forti valenze terapeutiche; è ben noto, ad esempio, che certe ricerche abbiano dimostrato – in modo divertente, ma anche inquietante – come i pazienti trattati col cosiddetto placebo (ad esempio messi in lista di attesa oppure seguiti con colloqui informali tenuti da un infermiere con sedute di durata uguale a quelle psicoterapeutiche) migliorassero di più di quelli trattati con una psicoterapia.

Ma perché esistono e riescono a sopravvivere tante scuole diverse? Migone elenca alcuni dei motivi per cui esistono tante scuole psicoterapeutiche, e sottolinea che non è possibile comprendere questo problema se non lo si guarda da una prospettiva storica. Ad esempio, alcune scuole sono sorte come reazione ad altre: notando una debolezza in un certo approccio, certe scuole hanno tentato di colmarlo costruendone uno alternativo, ed occorre vedere in che periodo storico questo è avvenuto per capire se poi l’approccio originario nel contempo si è evoluto correggendo quella debolezza e quindi rendendo inutile la scuola alternativa che si era formata. Oppure, dall’esigenza di trattare pazienti con una diagnosi specifica o di una determinata fascia di età può nascere una nuova tecnica che successivamente viene applicata ad altre diagnosi diventando, gradualmente e quasi di soppiatto, un nuovo modello che può arrivare a essere applicato all’intero campo della psicopatologia. Un altro problema è che spesso alcuni nuovi approcci non soppiantano i precedenti, in quanto in psicoterapia i differenti approcci possono coesistere: questo a volte è dovuto al fatto che certe scuole continuano a sopravvivere per semplice ignoranza degli altri approcci, o per motivi di tradizione storica, di fedeltà ai “padri fondatori”, quindi per motivi affettivi. In sostanza, potremmo dire, certe scuole esistono per una sicurezza di identità, infatti l’appartenenza una scuola è una fonte di rassicurazione, soprattutto in un mestiere così difficile che per sua natura mette in crisi, dovendosi confrontare con le crisi e la sofferenza dei pazienti.

Vi sono poi scuole che usano terminologie diverse ma dietro alle quali vi sono gli stessi concetti, e – per i motivi detti prima, cioè per la insicurezza di identità – vi è una resistenza a prendere atto che, al di là dei termini usati, spesso certe operazioni cliniche della propria scuola sono identiche a quelle di scuole nominalmente diverse. Tanti terapeuti insomma hanno bisogno di illudersi che le cose siano più semplici di quelle che sono, e ignorano il fatto che in tante scuole vi sono state ibridazioni reciproche.

Esiste un movimento per l’integrazione in psicoterapia, che mira cioè a individuare teorie che possano rendere conto, in un modo anche più sobrio, di certi fenomeni clinici che sono spiegati con teorie diverse dalle varie scuole. Vi è insomma da sempre una ricerca di quella che potremmo chiamare una “teoria generale della psicoterapia”. Vi è ad esempio una importante associazione internazionale, la Society for the Exploration of Psychotherapy Integration (SEPI), di cui esiste anche un gruppo italiano che Migone anni fa ha contribuito a fondare, che lavora in questo senso (sono stati fatti vari congressi anche in Italia). La SEPI però non mira all’eclettismo (cioè alla commistione di operazioni cliniche tratte da scuole diverse), ma all’integrazione teorica dei diversi approcci e modelli (un esempio tra i tanti è la proposta – fatta da uno psicoanalista che è anche uno dei fondatori della SEPI, Paul Wachtel, che l’ha pubblicata sulle pagine di Psicoterapia e Scienze Umane, la rivista diretta da Migone – di spiegare il concetto freudiano di transfert utilizzando la teoria degli “schemi correggibili” di Piaget, cioè come “assimilazione”). La questione dell’integrazione comunque è complessa, foriera di equivoci, impossibile da affrontare in un solo seminario, tanto che Migone è disponibile a inviare alcuni articoli su questo argomento a coloro che fossero interessati (email <migone@unipr.it>).

Legata al tema dell’integrazione è anche l’importanza di conoscere modelli diversi, perché il paziente potrebbe sentirsi compreso meglio da un approccio piuttosto che da un altro. Il terapeuta deve essere in grado di conoscere la specificità dei problemi del paziente affinché quest’ultimo si senta capito; in realtà però non si tratta di conoscere, bensì di riconoscere. Infatti, in termini di teoria della conoscenza, si potrebbe dire che noi possiamo conoscere solo qualcosa che conosciamo già, di cui abbiamo fatto esperienza, altrimenti semplicemente non la vediamo (viene in mente che già quasi un secolo fa il famoso medico Augusto Murri affermò che «in clinica non si tratta di conoscere, ma di riconoscere», cioè per diagnosticare una malattia il medico deve averla già vista). Ciò ha implicazioni per la psicoterapia, perché lo psicoterapeuta non solo dovrebbe conoscere i vari disturbi di cui soffre il paziente (tramite lo studio, l’osservazione di altri pazienti, ecc.), ma idealmente avrebbe dovuto farne esperienza personalmente, perché è solo in questo modo che riesce a comprendere il paziente, e quest’ultimo si sente davvero compreso (volendo qui potremmo ricorrere alle neuroscienze, e precisamente alla scoperta dei neuroni specchio, dove molti studi sperimentali hanno dimostrato come essi si attivano solo se il soggetto conosce già quel tipo di comportamento o di emozione che osserva nell’altro, e questo ha implicazioni per quanto riguarda il fenomeno dell’empatia). Non a caso è ben noto come alcuni dei più grandi psicoterapeuti, certi pionieri che hanno dato importanti contributi su determinati problemi clinici, avessero personalmente sofferto di quei problemi (collegato a ciò, vi è il problema della motivazione a essere psicoterapeuti, nel senso che, come è ben noto, anche la scelta professionale ha determinanti inconsce, e aiutando un’altra persona noi inconsapevolmente, per identificazione, lavoriamo anche attorno a un nostro problema).

Lo psicoterapeuta quindi dovrebbe essere una persona che non si richiude nella “parrocchia” della propria scuola. Infatti, se la sua cultura dello psicoterapeuta è ridotta a poche cose, a pochi modelli, egli tende a vedere quegli stessi modelli in tutti i suoi pazienti, i quali potrebbero sentirsi ingabbiati in una teoria e non compresi (tanto è stato scritto su questo, si pensi soltanto a quante generazioni di psicoanalisti tendevano a vedere il complesso di Edipo in tutti i loro pazienti, perché era questo che era stato loro insegnato, non riuscendo a vedere altre costellazioni psicodinamiche a volte ben più complesse e importanti).

Occorre quindi che il terapeuta conosca molti modelli psicoterapeutici, ma, a ben vedere, anche che abbia fatto diverse esperienze di vita, anche di sofferenza. Diversi studi empirici hanno dimostrato che i terapeuti più “sani” spesso non sono bravi terapeuti, perché possono non essere motivati o non capire bene i pazienti (si è parlato a questo proposito di “normotici”, o di “normopati”, cioè coloro che sarebbero, con un ossimoro, “ammalati di normalità”).

Il terapeuta quindi dovrebbe essere il più vicino possibile al paziente, e per capirlo meglio dovrebbe “assomigliargli”, ma ovviamente entro certi limiti. Se è molto diverso da lui non avviene quell’“incastro” (patient/therapist match) che, come tante ricerche empiriche hanno dimostrato, è uno degli ingredienti essenziali per la riuscita della terapia.

Concludendo, sebbene possa sembrare prescientifico avere molti punti di vista per uno stesso disturbo, la molteplicità dei modelli è il risultato di un ampio lavoro di ricerca che permette alla psicoterapia di progredire. Migone concorda con le riflessioni del filosofo Evandro Agazzi che riguardo alla pluralità dei modelli ritiene non ci sia un vero conflitto, poiché ogni teoria, grazie ai propri strumenti conoscitivi, costruisce un proprio “oggetto scientifico”, che deriva da una specifica metodologia conoscitiva e che è diverso dalla “cosa” che si osserva. Questo “oggetto scientifico” non corrisponde al paziente reale, che è inconoscibile: come sottolineava anche Sigmund Freud, noi non possiamo mai conoscere la realtà, ma solo una sua rappresentazione che deriva dagli strumenti con cui la osserviamo. Scoprire un nuovo metodo, o un nuovo modello psicoterapeutico, significa dunque avere un punto di vista in più sul paziente.

La proposta che fa Migone è quella di ritenere i diversi modelli psicoterapeutici tutti legittimi, in quanto guardano il paziente da una loro prospettiva, legata anche a una specifica metodologia. E questi modelli vanno mantenuti tra loro paralleli, per garantire una ricerca infinita. Non c’è un solo modo per conoscere le cose, né c’è un metodo per conoscere “la verità”, che è inconoscibile. Occorre lasciar aperto il campo della ricerca in psicoterapia, affinché continuino a sussistere modi diversi di conoscere il paziente. Nel caso contrario si arresterebbe il processo di conoscenza. Certi metodi non sono “migliori” di altri in assoluto, ma più utili per determinati scopi.